Kazakistan on the road - Il racconto



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Per la mia cartina, era semplicemente una linea tratteggiata in rosso in mezzo ad un deserto, con disegnato sopra, in un minuscolo riquadro, un cammello, anche lui rosso, a ricordare che lì c'era una delle tanti diramazioni della Via della Seta poi, parallela alla linea rossa, una linea a scacchi marroncina indicava la ferrovia.
“Non c'è asfalto. Si tratta di una pista in terra battuta con qualche lingua di sabbia” spiegò il gentile kazako.
“Il vero problema è la condizione del fondo: un susseguirsi di piccoli avvallamenti” aggiunse, simulando con la mano destra il gesto di piccole onde.
Immaginai si riferisse al tanto odiato toule ondulè, comunque lo avremmo scoperto prestissimo.
Dopo aver lottato con una scassatissima pompa di benzina per fare il pieno all'Ammiraglia e aver caricato una buona scorta d'acqua, alle otto eravamo già pronti per lasciare Beyneu per affrontare gli ottantacinque chilometri che ci separavano dal confine uzbeko.
Era una bella giornata di sole e, a quell'ora della mattina, la temperatura era ancora gradevole ma sapevo che, di lì a poco, l'aria nella steppa si sarebbe fatta rovente.
La pista iniziava proprio dietro la stazione ferroviaria. Scavalcammo i binari che quotidianamente vedevano passare il treno diretto verso l'Uzbekistan, e imboccammo una pista che si perdeva a vista d'occhio in mezzo al nulla. Alla mia sinistra solo sabbia e qualche cespuglio secco a contrastare l'azzurro intenso del cielo, alla mia destra ancora sabbia ma, a qualche centinaio di metri, l'orizzonte era interrotto da una collinetta su cui svettavano i tralicci della ferrovia.
Davanti a noi, il fondo color sabbia della pista, duro come il cemento, si presentava come un patchwork formato da buche, avvallamenti e canali profondi.
Nonostante la velocità al minimo, i sobbalzi dell'Ammiraglia erano tali da non riuscire a restare seduti sulla sella. Dopo i primi metri pensai che non sarebbe bastata un'intera giornata per raggiungere il confine, sempre che l'Ammiraglia non ci avesse abbandonato prima, disintegrata in mille pezzi.
Non potevo credere che quella pista abbandonata a se stessa potesse essere la via di collegamento tra due stati e che alla fine avremmo trovato davvero una dogana ad attenderci.
Fortunatamente, dopo qualche chilometro le condizioni della pista iniziarono a migliorare un pochino, ma le buche e i canali lasciarono purtroppo il posto al fastidiosissimo toule ondulè, interrotto solo da tanto improvvise quanto insidiose lingue di sabbia. Con la moto così carica era impensabile anche solo immaginare di affrontare quelle piccole cunette a una velocità tale da far galleggiare la moto. Dopo la prima mezzora e vari tentativi trovammo un nostra strategia. Entrambi stavamo in piedi sulle pedane per evitare i continui contraccolpi dovuti ai sobbalzi, mentre io cercavo di tenere quell'andatura che non facesse soffrire troppo l'Ammiraglia e che al tempo stesso mi permettesse di controllarla in caso di sabbia improvvisa.
La nuova molla posteriore, progressiva e con carico maggiorato, montata prima di partire rispondeva alle sollecitazioni del terreno in modo straordinario.
Per chilometri e chilometri incrociammo solo qualche mezzo pesante che a passo d'uomo percorreva la pista in direzione opposta alla nostra, la loro presenza mi veniva annunciata con largo anticipo dalla grande nube di polvere che sollevavano e che, man mano che si avvicinavano, diventava sempre più grande fino al momento dell'affiancamento, quando si trasformava in una vera e propria tempesta di sabbia, minuti durante i quali ci trovavamo immersi in una fitta nebbia fatta di polvere che, non solo toglieva il respiro, ma che impediva completamente la visuale.
Mentre il deserto pian piano prendeva il sopravvento sulla steppa, iniziarono a fare la loro comparsa i primi gruppi di cammelli battriani. Essendo la stagione della muta, della loro folta pelliccia marrone non rimaneva che qualche ciuffo tondo e lanoso.
Per secoli era stata la resistenza di questi cammelli a permettere alle merci preziose come la seta di raggiungere l'Europa dall'oriente. Per me rappresentavano la vera incarnazione della mitica Via della Seta.
Con la temperatura che si impennava diventava fondamentale assumere liquidi, e durante una delle tante soste che ci prendevamo per bere, Rosanna notò il carapace di una testuggine in mezzo alla pista, ci avvicinammo e l'animale ritrasse velocemente la testa, era viva. Come noi anche lei, viaggiava lentamente sotto il sole cocente e in mezzo alla polvere, non c'era dubbio che si meritasse la nostra solidarietà. Rosanna la prese e la depose un po' più avanti, al sicuro, lontano dalla strada. Come i cammelli, anche la nostra tartaruga si era adattata a vivere in questo ambiente estremo, dalle estati roventi e dagli inverni gelidi.
A dispetto della polvere, del toule ondulè, e del caldo, il fascino del deserto iniziava ad insinuarsi andando ad alimentare la parte meno razionale della mia mente. L'anima del viaggiatore in queste situazioni trovava il suo nutrimento vitale.
Non potei comunque trattenere un urlo di gioia quando in lontananza scorsi il confine. Rosanna mi fece eco, “Evvai, ce l'abbiamo fatta! Bravi noi e brava la nostra Ammiraglia”
Dopo tre ore, avevamo dunque raggiunto la dogana “stepposa” di Tajen.
Era passato da poco mezzogiorno, quando il militare kazako in mimetica e con un fucile a tracolla, chiuse il cancello arrugginito e traballante dietro di noi. Ci trovammo così nella terra di nessuno, dietro di noi avevamo lasciato il Kazakistan, mentre davanti a noi potevo vedere la frontiera uzbeka.
Le operazioni doganali kazake erano state abbastanza semplici. La cosa strana fu che ci divisero. Rosanna in quanto passeggera, venne dirottata verso un edificio dove sbrigò le pratiche di controllo passaporto mentre io, con il passaporto e i documenti dell'Ammiraglia in mano, mi accodai agli altri conducenti in transito. Considerato che la strada per raggiungere Tajen era stata deserta, mi stupii che in dogana ci fosse un certo movimento. Dopo il controllo del passaporto, e un'ispezione sommaria del bagaglio, fui lasciato libero di raggiungere Rosanna.
Ero certo che dalla parte uzbeka i le procedure non sarebbero invece state così fluide.
Da parte nostra, per facilitare le cose, avevamo preparato due liste. In una, avevamo annotato le somme di denaro che avevamo con noi, divise tra dollari americani, rubli russi e tenge kazaki; e nell'altra avevamo indicato, sia in inglese che in russo, i medicinali presenti nella nostra farmacia da viaggio. Questo perché nel caso ci avessero scoperto denaro non dichiarato avremmo rischiato, oltre al sequestro della somma, una denuncia, e cosa ancor più grave, se tra i nostri medicinali avessero trovato sostanze proibite potevamo essere arrestati. Non si trattava di leggende metropolitane, sapevamo infatti che qualche settimana prima, un motociclista inglese era stato trovato in possesso di un medicinale contenente codeina, comune in Europa ma vietato in Uzbekistan in quanto considerato stupefacente, e per questo era stato arrestato.
Il controllo sui passaporti si svolse in modo sorprendentemente veloce, quando però arrivò il momento di affrontare l'ufficio doganale le procedure si bloccarono. Purtroppo per noi era arrivata l'ora di pranzo, e a noi non restava che aspettare che il funzionario ritornasse dopo la pausa. Passarono più di due ore.
Nel frattempo un paio di macchine uzbeke stracariche di merce si erano accodate all'Ammiraglia e gli occupanti si unirono a noi nell'attesa. Superato il riserbo iniziale, fummo presto integrati in un capannello in cui, attraverso qualche parola di inglese e di russo, grazie a gesti e disegni sul terreno, ci abbandonammo ad una colorita conversazione sugli argomenti più disparati, parlammo di famiglia, dell'Uzbekistan, dell'Italia, del nostro viaggio e delle rispettive professioni.
Quando alla fine della lunga pausa pranzo, il lavoro in dogana poté lentamente riprendere, per noi iniziarono gli estenuanti controlli. Ci ispezionarono ogni singolo oggetto, ma l'attenzione maggiore venne riservata al materiale elettronico, per i medicinali invece, si accontentarono di leggere la nostra lista scritta in russo.
Al termine dell'ispezione tutti i nostri averi giacevano sul marciapiede ai piedi dello sportello, un po' dentro e molto fuori dalle borse.
Stessa sorte toccò ai nostri amici uzbeki, dovettero scaricare dalle auto ogni pacco, borsa e scatola. Dopo i meticolosi controlli, scarpe, vestiti, cibo ed elettrodomestici ritrovarono poi con grande difficoltà il loro spazio, così gli uni aiutavano gli altri a spingere, comprimere e a pressare al fine di riuscire a richiudere portiere e portabagagli.
Al caldo si aggiunse anche lo sforzo di rimettere tutto al suo posto e il risultato fu un bagno di sudore per noi ma soprattutto per i nostri amici uzbeki.
Quello era il prezzo che avevamo pagato per entrare nel paese. In tutto questo emergeva anche una sorta di avvertimento: stavamo per addentrarci in un paese in cui l'ombra del regime si sarebbe fatta sentire più che altrove.
Alla fine, dopo quattro ore di dogana avevamo conquistato il diritto di toccare il suolo uzbeko.
Appena fuori, non ebbi nemmeno il tempo di guardarmi intorno che fummo accerchiati da un gruppo di persone..
Dollar, sum, sum?” , “Eura, sum?” continuavano a ripeterci, sgomitandosi a vicenda per guadagnare la nostra attenzione.
Se fossimo stati in un altro paese mi sarei guardato bene dall'affidarmi ai servizi dei cambiavalute non ufficiali, qui invece sapevo che tutti cambiavano i soldi al mercato nero, ottenendo oltretutto tassi di cambio molto più vantaggiosi rispetto a quelli praticati dalle banche.
Ci procurammo moneta locale da una giovane uzbeka che oscurava i suoi occhi a mandorla con dei grandi occhiali da sole neri e che, in cambio di una sola banconota da cinquanta euro, ci consegnò centocinquantamila sum in pezzi da mille. Erano talmente tanti che Rosanna non riuscì a farceli stare tutti nel portafogli, dovette riempire anche le tasche della giacca.
“Assicurazione moto?” le chiese poi Rosanna in russo. In dogana non eravamo riusciti a farla.
Niet, niet” rispose la simpatica ragazza.
Niente assicurazione, non era obbligatoria e quindi non c'era modo di farla. L'avevamo già sperimentato in Georgia, e dal punto di vista psicologico non era una bella sensazione, anche perché questo significava che in Uzbekistan nessuno, o quasi, guidava assicurato.
Appena fuori dalla dogana, una strada asfaltata aveva invece sostituito la pista kazaka. Ai lati della strada, alcuni uomini dalla pelle bruciata dal sole ci facevano cenno di fermarci ai loro caffè, erano ricavati da vecchi container di metallo arrugginito, superati i quali c'era ancora solo la steppa ad attenderci.
L'aria molto calda e il riverbero della luce disegnavano in lontananza delle grandi pozze d'acqua che si muovevano fluttuanti, erano solo dei miraggi.
Per duecentocinquanta chilometri diressi l'Ammiraglia lungo l'interminabile lingua di asfalto malconcio che tagliava come una spada l'arida terra della steppa. Era il rettilineo più lungo che avessi mai visto.
Lo spirito del viaggio aveva ormai preso il sopravvento, c'era solo il “quì e ora”, ciò che contava era l' essere in quel momento in quel luogo con la mente pronta a non farsi sfuggire nessun particolare.
Eravamo nel mezzo della steppa e stavamo percorrendo il rettilineo più lungo che avessi mai visto, diretti verso il villaggio sperduto di Moynaq, sulle sponde del lago d'Aral. Il nostro mondo sembrava così lontano che ebbi la sensazione di essere in viaggio da sempre.
Quando le nostre ombre iniziarono ad allungarsi, davanti a noi non si vedeva che sabbia. Man mano che il sole scendeva il cielo si dipinse di tutte le tonalità del rosso, stavamo viaggiando verso uno dei tramonti più belli che avessi mai visto, e tutto intorno, anche l'arida steppa, assumeva un aspetto accogliente. Eravamo consapevoli che stavamo vivendo uno di quei momenti che difficilmente si cancellano dalla memoria. Volevo che quella cartolina si stampasse nella mia mente per sempre.
Solo l'accensione della spia della riserva mi riportò alla realtà.
Da quando avevamo lasciato Beyneu non avevamo ancora incontrato nessun distributore di benzina,
quindi al più presto avremmo dovuto trovare il modo per fare rifornimento.
Speravo però che il sole, prima di ritirarsi dietro l'orizzonte, ci avrebbe quantomeno permesso di raggiungere il primo paese che leggevo sulla cartina, Kungrad, era sul punto in cui avremmo dovuto abbandonare l'interminabile rettilineo e deviare verso il Lago d'Aral.
Quella sera invece il sole ci tradì troppo presto, arrivò il buio e noi viaggiavamo ancora in mezzo al nulla. Non so quante volte benedicemmo i fari allo xeno che regalai all'Ammiraglia prima di partire, stavano illuminando la strada dissestata a giorno.
Viste le condizioni delle strade, una delle poche regole che ci eravamo imposti era di non viaggiare mai di notte ma la lunga pausa pranzo dei doganieri ci stava costringendo a farlo, e poi Kungrad non doveva essere tanto lontana.
Mentre noi eravamo costretti a procedere a passo d'uomo a causa di continue lingue di sabbia riportate dal vento sulla carreggiata, vidi negli specchietti retrovisori delle luci che si avvicinavano a tutta velocità. A causa delle sconnessioni del terreno queste facevano dei grossi sobbalzi ma non davano cenno di rallentare. Decisi allora di accendere le quattro frecce per renderci ancora più visibili.
Da quando avevamo lasciato la dogana avremmo incontrato si e no due automobili che provenivano in senso contrario, e nessuno che andasse nella nostra stessa direzione. Vedere una presenza umana mi procurò un certo sollievo.
Quando le luci furono abbastanza vicine riconobbi le auto stracariche dei nostri amici conosciuti in dogana. Il sorpasso fu accompagnato da strombazzate di clacson e saluti dai finestrini, ma una volta che furono davanti a noi, rallentarono notevolmente. Capii che non ci avrebbero lasciati soli.
Per decine di chilometri seguimmo la carovana che si era adattata alla nostra velocità, fino a quando finalmente raggiungemmo la prima chaikhana incontrammo sulla strada e le auto decisero di fermarsi.
Davanti al locale c'era un certo movimento di auto e di camion, dall'interno proveniva un buon profumo di cibo e noi, dalla colazione della mattina, avevamo mangiato solo qualche dolcino che avevamo comprato insieme all'acqua a Beyneu.
Parcheggiammo l'Ammiraglia in una posizione da cui potevamo tenerla d'occhio anche dall'interno del ristorante e fummo subito avvolti dal calore e dalla simpatia dei nostri amici uzbeki con i quali formammo un'unica grande tavolata.
Bastarono pochi minuti e il tavolo fu riempito da insalate di cetrioli e pomodori, spiedini di una carne che immaginai essere agnello, e poi ancora pollo e dei panzerotti di pasta ripiena di cipolle e carne, il tutto accompagnato da yogurt e chay. Portarono anche delle ciambelle di pane profumatissimo.
Rosanna fu rapita da due signore del gruppo che la fecero sedere tra loro, guardavano affascinate questa donna venuta dall'Italia in sella ad una moto. Approfittavano evidentemente dell'occasione di toccare con mano un'emancipazione femminile che apprezzavano, ma che loro potevano solo sognare.
Io mi ritrovai invece tra due colossi dagli occhi a mandorla e dal grande pancione che facevano a gara a riempirmi il piatto.
Stavamo vivendo un'esperienza unica, a tavola con quelle splendide persone che ci avevano accolto tra loro come fossimo parte della famiglia. E pensare che fino ad un'ora prima eravamo in una situazione difficile, in mezzo alla steppa, di notte, affamati e con la spia della riserva accesa... Stavamo godendo di quell'inaspettato.
I nostri amici, dopo la cena, erano intenzionati a proseguire fino alla prima grande città, Nukus, li si sarebbero fermati in un albergo e il giorno dopo avrebbero ripreso la strada verso casa. Abitavano a Juma, una cittadina ad una trentina di chilometri da Samarcanda.
Noi dovevamo invece deviare verso il lago d'Aral, ma anche se avessimo dovuto fare la loro stessa strada, quella sera non li avremmo seguiti di certo.
L'idea di ritrovarsi su quelle strade così conciate e al buio non mi allettava per niente, non ci saremmo mossi di li per nulla al mondo.
Tra le nostre priorità c'era il mangiare e l'avevamo fatto in abbondanza.
La seconda esigenza era quella di trovare un posto dove dormire e in questo speravamo che i proprietari della chaikhana potessero venire in nostro aiuto.
La terza necessità era trovare carburante per l'Ammiraglia, e di questo ce ne saremmo occupati il giorno successivo.
Accompagnammo i nostri amici alle auto. Li salutammo con la promessa che se avessimo avuto tempo saremmo passati a Juma per una visita. Ci avevano fornito gli indirizzi e i numeri di cellulare da usare in caso di qualsiasi necessità durante la nostra permanenza in Uzbekistan.
Se queste erano le premesse pensai, il popolo uzbeko ci avrebbe sicuramente riservato delle belle sorprese.
Salirono quindi tutti in macchina e ripartirono a tutta velocità.
Seguii con lo sguardo le luci delle vetture finché non si persero nel buio.
Eravamo euforici per la disponibilità e per il calore umano ricevuto. Ci avevano dato la carica necessaria ad affrontare con entusiasmo il viaggio in questo nuovo paese.
“Sarebbe valsa la pena arrivare sin qua solo per saggiare l'ospitalità di queste persone” disse Rosanna.
Aveva ragione, averli conosciuti significava, in un certo senso, essere riusciti ad entrare a far parte del loro mondo che stava diventando anche parte del nostro.
Li fuori, la serata era stupenda, la temperatura ideale e l'assenza di inquinamento luminoso ci stava regalando un cielo stellato meraviglioso. Era lo stesso spettacolo che avevo visto mentre eravamo soli nella steppa ma che non avevo avuto la lucidità di apprezzare come invece stavo facendo in quel momento.
Per noi era giunto anche il momento di scoprire se la famiglia della chaikhana, dopo averci sfamato, ci avrebbero potuto dare ospitalità per la notte.
Nessun problema ci disse il proprietario, un simpatico uzbeko sulla cinquantina che insieme alla moglie e a due figli gestiva il posto.
Dietro alla chiaikhana c'era un cortile dove ci fece parcheggiare la moto, e dove si aprivano, oltre all'abitazione della famiglia, anche una piccola casetta con due stanze per gli ospiti.
Una stanza era già occupata, probabilmente dai proprietari della vecchia e arrugginita Lada familiare a fianco della quale avevo parcheggiato l'Ammiraglia.
L'altra invece era nostra completa disposizione.
Scaricammo i nostri bagagli in quel locale spoglio ma pulito. Al centro della stanza, un basso e lungo tavolino, rivestito da una tovaglia di plastica sbiadita, che divideva l'ambiente in tutta la sua lunghezza rappresentava l'unico elemento d'arredo.
Creammo un giaciglio sistemando uno sull'altro dei materassini che trovammo impilati insieme alle coperte in un angolo. Erano dei materassi di sottile gommapiuma rivestita da tessuti damascati dai colori sgargianti. Erano belli e davano un tocco di colore.
Probabilmente alla gente del posto sarebbe stato sufficiente un solo materasso, invece noi, per non spaccarci le ossa, ne utilizzammo quattro a testa.
Pensai che quella notte avremmo dormito pochissimo, ma avremmo comunque riposato e alla prime luci dell'alba avremmo potuto riprendere la strada.
Ma la stanchezza accumulata durante quella lunga giornata era tale che crollai quasi all'istante, e che dormita sui loro tappeti, altro che riposare soltanto. Ci svegliammo infatti dopo le otto in forma smagliante, pronti ad affrontare con energia una nuova giornata.
Con la luce del giorno il posto era molto più accogliente di quanto mi era sembrato il giorno precedente.
I membri della famiglia che ci ospitava erano già in attività.
Dalla chiakhana proveniva profumo di cibo, dalla porta della cucina aperta sul cortile potevo vedere la signora impegnata ai fornelli, i due figli erano invece affaccendati a riempire una lunga fila di secchi di alluminio con dell'acqua pompata manualmente a turno dal pozzo, mentre il marito stava caricando dei pezzi di legna su ciò che rimaneva di un'antica carriola.
Dopo aver consumato la colazione in compagnia dei proprietari della vecchia Lada, tre scanzonati ragazzi russi di Mosca, ripartimmo diretti verso il lago d'Aral. I tre russi sarebbero ripartiti invece in direzione di Samarcanda.
Lasciata la chiakhana, dopo qualche chilometro, incontrammo il distributore di carburante di cui ci avevano parlato i ragazzi della Lada, e come prevedevamo vendeva solo benzina a ottanta ottani. Lo sapevamo che in Uzbekistan avremmo trovato solo quel tipo di carburante, ma sapevamo anche che per la nostra Ammiraglia non sarebbe stato un problema.
Grazie al fondo stradale in discrete condizioni, impiegammo meno di un'ora a percorrere gli ottantasette chilometri di steppa che separano Kungrad da Moynaq e, come il giorno precedente, anche in questo tratto di strada nessuna presenza di vita umana.
In verità, lungo il percorso, ai lati dalla strada scorgemmo qualche villaggio, ma sembravano delle città fantasma che stavano per essere inghiottite dalla sabbia. Avevano assunto lo stesso color seppia della steppa e l'atmosfera di desolazione era tangibile.
D'altro canto ci stavamo addentrando nel Karakalpakstan, la regione più depressa dell'intero Uzbekistan, dove nulla sembrava ricordare l'antico sfarzo della via della seta. Eravamo ormai prossimi al villaggio di Moynaq, divenuto l'emblema di uno dei più grandi disastri ecologici ad opera della mano dell'uomo.

 
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